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venerdì 11 novembre 2011

CONFESSIONI PRIVE DEL RIFLESSO DI SE


“Esistono riflessi silenziosi come lo spirito di chi vive senza voce,
in una gabbia a forma di stanza; buia,
con l’unico spiraglio di verità che ho imparato a chiamare finestra…”

- R. I. -





Oggi, dopo cinque anni di silenzio, proprio nel giorno della mia condanna, mi è stata regalata una penna: l’indisciplinata arma delle mie sfide passate.
Ero pressappoco ventenne, quando, mostrando la mia irrequietezza, tutti i più autorevoli critici mi resero immortale. Raccontavano di me e delle mie gesta d’autore smisurate.
Ho scritto per il mio ego e per quell’indistinta follia che chiama scrittore un uomo; ma ho saputo peccare non solo con le parole, tanto che, ad ogni mia imprecazione, sentivo il lamento degli angeli, ed il mio spirito ingannato.
Sono stato imbrogliato, hanno imbrogliato le mie umili origini, hanno fatto di me un mostro: il vero motivo della mia condanna.
Tutti sapete che ho ucciso Evelyn e non ho più forze per dimostrare la mia estraneità ai fatti; non serve, ormai sono rassegnato alla mia sorte, anche se le prove della mia innocenza sono a portata di mano.
Credere che un uomo, nell’eccelsa stravaganza del suo successo, possa distruggere tutto quello per cui ha lavorato, è un’infausta vigliaccheria. Si, Evelyn è morta, ma io ero lontano da casa!
I miei avvocati hanno creduto necessario spodestare il mio patrimonio, rendendomi un assassino…
Non voglio più parlare di questo, sono sempre più rasserenato dall’idea della mia innocenza e dalla certezza che sarò accolto tra le sue braccia con grande amore; forse, solo questo salto mi renderà le mie verità.
Non scrivo per convincervi della mia innocenza, ma ho voglia di raccontarvi dei miei cinque anni nascosti – si, è il termine giusto! Nascosti dalla vita che mi è stata negata. -  in una gabbia chiamata stanza. Sento il dovere di raccontarvi il tutto al passato, vi dico che quella gabbia era buia anche di giorno, e vivevo per l’unico spiraglio di verità che ho imparato a chiamare finestra! Era grande venti centimetri per venti; lo è tutt’ora.
Ho trascorso i primi tre anni convincendomi che ero un assassino, e che dalla distanza che separava me all’omicidio di Evelyn, percorrevano solo pochi passi; ma il tempo mi ha riconcesso la mia ragione.
Per caso – io ho sempre creduto in esso e nei suoi baratti -, il tenente di polizia che mi ha arrestato, mi consegnò un libro dal titolo: ”Confessioni prive del riflesso di se” di una scrittrice italiana di nome Stefania Leopoldi: il mio ultimo desiderio è stato quello di portarlo con me, sulla sedia elettrica.
Passai gli ultimi due anni della mia vita, rileggendo quelle pagine calde, scritte con un inchiostro fuori dal comune – pensavo questo, ogni volta che il mio sguardo sfiorava ogni sua parola; sembrava quasi appartenere a quelle sfere di pensiero vitale di cui avevo sempre desiderato appropriarmi - con pensieri tanto reali, che, immedesimati nella mia realtà, mi fecero credere che la fine fosse la cosa più giusta.
Credo che i libri che ci catturano dall’inizio, sono quelli che hanno già dentro una parte di noi.
Tra quelle pagine ormai consunte ho lasciato me stesso, quelle pagine sono una foto in prosa della mia anima. Ho sempre desiderato conoscere quella scrittrice che, senza saperlo, ha dato voce alle mie emozioni. L’ho chiesto, l’ho chiesto più volte ma credo che nessuno le abbia mai fatto pervenire quest’assurda richiesta.
Sono certo che se avesse saputo, sarebbe venuta da me. Ne sono certo perché il suo sentire è il mio sentire.
La prima volta che presi il suo libro tra le mani, il battito del mio cuore accelerò all’impazzata senza sapere il perché. Sul retro di un copertina che regalava l’immagine di un ragazzo, una solitaria frase mi trafisse: “Non mi hanno permesso di essere, impedendomi di diventare”.
Rimasi per qualche interminabile secondo con gli occhi fissi su quelle parole, la mente già altrove.
Solo una frase e in quella frase tutto il mio mondo.
Il tempo, fermo da tre anni, riprese a scorrere. Ricordo di aver sentito il rumore delle lancette fendere il silenzio mentre con mani tremanti mi accingevo ad aprire quel libro in un punto a caso, perché il caso non esiste….

“Quando Eugenio si destò dal suo torpore, si rese conto che era troppo tardi. Il male ricevuto a lungo andare lo aveva fatto soccombere. Il sole si spense in una mattina di aprile di qualche anno prima, da allora nessuna stagione a scandire il tempo ormai fermo, solo il gelo del suo inverno interiore.
Era scivolato in un baratro profondo, fatto di buio, di vuoto, di assenze, di voci, di morte, di brividi e paura, paura, paura…..
Tremava Eugenio e spesso piangeva lacrime nascoste, gocce di rabbia e tristezza per quella fetta di esistenza che gli era stata sottratta.
La vita gli aveva tolto molto di più di quanto non gli avesse dato. Ora c’era una voragine tra il suo passato ed il presente, il futuro poi non riusciva a visualizzarlo neanche nei suoi sogni. Si sentiva un’isola da cui qualsiasi costa era troppo distante per costruire un ponte. Era solo e lo sapeva.
Nel buio della sua stanza pensava. I suoi pensieri sembravano non fermarsi mai, avrebbe voluto imprigionarli, avrebbe voluto cadere in una sorta di dolce incoscienza perché è proprio la consapevolezza del proprio male ad acuire quel dolore.
Pensava Eugenio, pensava a tutto ciò che aveva perso e a tutto ciò che non aveva mai avuto. Si rendeva conto che sul binario della sua vita nessun treno sarebbe più stato annunciato, per parecchio tempo se non addirittura per sempre.
Si vedeva seduto su una panchina in una stazione immaginaria, la nebbia ad avvolgere il mondo che lo spaventava, come una sorta di soffice coperta per impedirgli di vedere e di essere trafitto dalle immagini che gli ruotavano accanto.
Sullo sfondo un orologio fermo ed un silenzio surreale a rendere vana qualsiasi attesa. Eppure lui aspettava, senza sapere cosa né chi, ma aspettava.
Sapeva che il vuoto della sua vita doveva essere colmato, solo così il suo respiro poteva tornare ad essere regolare e la sua ansia avrebbe potuto placarsi. Solo così….
Sapeva che sarebbe giunta anche la sua fine ma in attesa di quel momento avrebbe voluto riagganciare attimi di vita. Anche un solo attimo di vita non avrebbe reso vana quella lunga attesa; anche una sola, breve, interminabile emozione è vita.
Fu così che l’orologio fermo di quella stazione immaginaria riprese miracolosamente a funzionare. Eugenio giurò di aver sentito il rumore delle lancette fendere quel silenzio surreale. Ed aspettò…..”

Quando chiusi quel libro pensai: “Chiunque tu sia voglio conoscerti, ovunque tu sia voglio raggiungerti”. Mi hai chiamato Eugenio e da oggi questo sarà il mio nome.
 

Scritto con Raffaele Innamorato

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